Giulio Saverio Rossi at CAR DRDE / Bologna

Giulio Saverio Rossi / Ogni cosa rappresa

November 17 - 12 January 2019

CAR DRDE
via Azzo Gardino 14/a
IT-40122 Bologna







I toni delle tele con cui Giulio Saverio Rossi apre la mostra ricordano quelli della pelle del cadavere che il Dottor Tulp viviseziona nel celeberrimo quadro di Rembrandt. Il chirurgo mostra il funzionamento dei tendini del braccio ormai rivelati aiutandosi con una pinza metallica mentre, con la mano libera, ne mima i movimenti. Il tutto avviene a basse temperature. L’aria sembra rarefatta intorno a un’umanità chiusa nello studio di sé stessa. Ogni cosa è rappresa, conchiusa in un circolo dove l’atto del guardare è costretto a replicarsi. Si tratta di un’eco dello sguardo simile a quello del suono, si assiste cioè a un fenomeno evolutivo in cui il vivo si specchia con ciò che è al vivo inducendo il visivo ad abdicare al visibile.
Giulio Saverio Rossi sintetizza la secessione del visivo dal “reale” nella parabola di un blocco di selenite. Estratto negli anni ’60 da una vena locale, la sua sostanza in mostra è ovunque tranne nel dipinto che lo rappresenta quasi fotograficamente. In Gipsoteca (selenite) la presenza dell’oggetto ha un carattere animista, tridimensionale, che sembra sfuggire dalla viscosità del fondo resinoso. Vicino a questo un suo gemello, Gipsoteca (polvere) ricorda come dalla selenite si produca il gesso, materiale fondamentale per la pittura in quanto base d’imprimitura per la maggior parte delle tele. Qui il paesaggio ormai archeologico va ancora a braccetto con la sua rappresentazione. I due dipinti rimandano infatti un paesaggio locale costellato di cave di selenite e parallelo a esso si colloca il memento di una pittura che di quel paesaggio era certamente mimesi ma anche spettro perché costruito con la sua stessa sostanza.

Rossi colloca però il tema originario sul finire della mostra e, per apprezzarne la chiusa chiarezza, è necessario camminare lungo il corridoio e avvicinarsi. Prima di esso tre pezzi annunciano strati non ancora rappresi nella storia e nel mito. Sono grandi, per certi versi meccanici, certamente meno definibili.
Sulla destra Sub-versione (Friedrich) appare come una sorta di apaesaggio. L’artista ricostruisce qui la nascita di un immaginario a partire dall’autoreferenzialità della materia. Come Friedrich campionò dei pezzetti di ghiaccio e ne moltiplicò l’immagine per costruire Il naufragio della speranza, creando così uno dei più iconici paesaggi nordici, tanto verosimile quanto non vero, allo stesso modo Rossi replica la struttura superficiale del suo blocco di selenite e lo moltiplica in un motivo, generando cristalli che ricordano il ghiaccio. In questo pezzo l’artista, in una totale inversione della stratificazione del “reale” pittorico, ha dapprima copiato il quadro di Friederich, con il disegno e con la tempera, lo ha poi parzialmente occultato con degli strati di gesso e ne ha infine replicato l’immaginario facendo uso dell’apparenza della materia pittorica stessa. Andando a ritroso il quadro corre nel tempo della storia della pittura generando una cinematica iconoclasta e donando al visibile l’azzeramento dell’immaginario.

Sulla sinistra Ogni cosa rappresa #1 e #2, due grandi oggetti in cui la pittura si sottrae a ogni scopo referenziale e la parabola esprime il suo finale. In questi veri e propri autoritratti della pittura, il soggetto è ciò che solitamente sta dietro all’immagine per supportarla. Sulla preparazione con bianco d’osso, gesso, olio di lino, colla di coniglio l’artista interviene con la punta d’argento, esercitando quindi una tecnica vicina all’incisione. A emergere è ancora una volta la trama della selenite ma la particolarità della tecnica fa si che questa sia visibile solo dove la punta di argento interviene sul bianco d’osso. Ecco la regola del visibile: dove c’è il gesso la punta d’argento non registra e la sua immagine non appare.
Tornando a Rembrandt, sul tavolo dell’artista non il corpo di un uomo ma quella della pittura stessa, costretta a scuoiarsi per uscire da una pelle che non sembra riconoscere più come propria. In tale discordanza macabra sta il nocciolo e il movente della ricerca: un tema puramente pittorico come il rapporto mancato tra supporto e superficie nasconde una condizione di un medium storicamente inattuale che resta invece spettro esatto della condizione del mondo. Anche questo ridotto a immagine, anche questo sempre più sottratto dal visivo o dal vivo per farsi apprezzare come visibile.

GIULIO SAVERIO ROSSI (Massa, 1988). Vive e lavora a Torino. Rossi ha studiato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Il suo lavoro è caratterizzato da un uso critico dei mezzi pittorici tradizionali e riflette su come la capacità di guardare alla pittura denunci l’abilità di guardare al mondo. Negando quindi la pittura come risultato di un esercizio ripetitivo, i suoi lavori possono anche essere intesi come la messa in esperimento di diverse strategie per capire lo sguardo attraverso la pittura. Tra le sue mostre recenti, le personali “Bordi/Borders/Bords #1” presso K+D (Torino, 2018) e “No Subject” presso LocaleDue (Bologna, 2017), e le collettive “Fragile” Société Interludio (Torino); “Hortus (in)conclusus” MACA Museo d'Arte Contemporanea di Alcamo; “The Malpighian Layer” CAR DRDE (Bologna); Stupido come un pittore #2, Villa Vertua Masolo (Nova Milanese); “Sulla Pittura” Spazio Siena (Siena); “Teatrum Botanicum” PAV - Parco Arte Vivente (Torino); “Viva Arte Viva” presso Futurdome (Milano)